Prevenire i suicidi sfruttando i mezzi digitali: così l’esperienza personale di Sandersan Onie lo ha spinto ad aiutare gli altri
Casi di attacchi di panico in famiglia, l'esperienza della depressione durante l'adolescenza e i pregiudizi collegati alle malattie mentali nel suo paese di origine (l'Indonesia): una storia che insegna come dalle difficoltà possano nascere anche progetti importanti e utili.
Sommario
Quando ho sentito parlare del progetto di Sandersan Onie sulla prevenzione dei suicidi grazie a dei mezzi digitali, ho deciso subito di contattarlo per un’intervista. Poiché vive in Australia, c’era una grande differenza di fuso orario ma vi assicuro che mi sarei svegliata volentieri all’alba per ascoltare la sua storia. Sarebbe stato ancora più bello parlarne da vicino, ma per fortuna la tecnologia ci ha permesso di superare le distanze e di fare una bella chiacchierata online.
«Il mio “viaggio personale” [nel mondo] della salute mentale è iniziato quando ero ancora un bambino piccolo. Dunque, questa non è solo la mia storia ma anche quella della mia famiglia.»
Così si apre la testimonianza di Sandersan Onie che attualmente lavora come ricercatore presso il Black Dog Institute in Australia dove si occupa dello sviluppo di soluzioni digitali volte a prevenire i suicidi e a combattere i pregiudizi associati ai problemi di salute mentale. Il suo percorso ci rivela come spesso le esperienze personali più difficili possano rappresentare un ottimo incentivo per aiutare chi ci circonda.
Salute mentale e pregiudizi: l’esperienza (e la missione) di Sandersan
Sandersan Onie e i suoi genitori sono originari dell’Indonesia, nello specifico dell’Isola di Sumatra. Quando aveva solo 3 mesi di vita, suo padre iniziò ad avere degli attacchi di panico: quando provò a spiegare ai dottori cosa provasse – «sintomi simili a quelli provati quando si ha un infarto e la sensazione di essere vicino alla morte» – essi non seppero dirgli cosa gli stesse accadendo, non essendo proprio a conoscenza di cosa fosse un attacco di panico.

In quegli anni, infatti, c’era molta ignoranza relativamente ai problemi di salute mentale. Inoltre, la cultura e le usanze del Paese portarono la famiglia a pensare che la causa del problema di salute fosse stata la nascita di Sandersan, nato pochi mesi prima.
Da adolescente, poi, il ricercatore ha vissuto in prima persona questo tipo di problemi, attraversando un periodo di depressione che lo ha portato a evitare il contatto con gli altri e a non voler uscire di casa:
«ogni giorno mi sentivo inutile e privo di speranza e sono arrivato al punto di credere che sarebbe stato meglio morire o scomparire in qualche modo».
Anche diversi anni dopo essersi ripreso, Sandersan è entrato di nuovo in una fase di depressione che però lo ha portato finalmente a chiedere aiuto. Dopo un anno di terapia il ricercatore è riuscito a superare il difficile momento e ha preso una decisione importante:
«dedicherò la mia vita ad aiutare altre persone con problemi di salute mentale».
È un’esperienza personale molto forte quella che mi racconta, eppure il suo tono di voce è tranquillo, rassicurante, e la sua espressione è rilassata, come di chi ha trovato un proprio equilibrio e un obiettivo di vita importante. Il suo scopo, infatti, è quello di aiutare le persone che lottano contro la depressione e contro i pensieri suicidi e, ha precisato, «è per questa ragione che sono diventato ricercatore specializzato in prevenzione del suicidio e salute mentale presso il Black Dog Institute».
Le malattie che riguardano la salute mentale sono spesso erroneamente interpretate dalla società come un segno di “debolezza” da parte degli individui affetti. Parlando in particolare del suo Paese d’origine, il ricercatore ha raccontato che, trattandosi di un Paese con una forte cultura religiosa, se qualcuno condivide le proprie esperienze di ansia o depressione, il problema tende spesso a essere etichettato come «mancanza di fede» o «bisogno di pregare di più».
Questo genere di sentimenti e problematiche tendono perciò a essere spesso ignorate e in alcune regioni lo «stigma va ancora oltre»: a questo proposito, il ricercatore mi ha parlato di una pratica comune nelle aree rurali dell’Indonesia che mi ha molto turbata.

Si tratta della cosiddetta pasung, resa illegale soltanto circa 6 anni fa: essa consisteva nell’uso di catene e nella creazione di “prigioni improvvisate” dove venivano spesso tenute le persone con problemi di salute mentale; anziché ricevere una terapia adeguata, quindi, queste persone venivano rinchiuse e spesso private non solo di ogni forma di contatto sociale ma anche di condizioni di vita degne.
Un problema di accesso all’informazione che Sandersan vuole risolvere (sfruttando la tecnologia)
La mancanza di conoscenza sul tema in Indonesia fa sì che le persone non considerino i problemi di salute mentale come questioni mediche, creando imbarazzo nelle famiglie che hanno dei membri affetti da questi problemi e rendendo ancora più difficile la possibilità di ricevere assistenza e sottoporsi ad adeguata terapia.
In Indonesia, ha precisato ancora il ricercatore, il numero di casi di ansia, di depressione e di suicidio è davvero alto ma le persone hanno molta paura di parlarne. A rendere la situazione ulteriormente drammatica, poi, è la mancanza di risorse e di iniziative volte ad aumentare la consapevolezza su questo tema su larga scala.

Un aspetto interessante che Sandersan ha fatto notare, inoltre, riguarda l’accesso alle informazioni sulla salute mentale online: «in Indonesia, se qualcuno facesse una ricerca [su Google] su “come suicidarsi”, non gli uscirebbe nessuna linea di supporto né nessun tipo di contenuto che possa fornire aiuto». Così il ricercatore ha compreso la necessità di trovare una soluzione che permetta alle persone che stanno affrontando questo tipo di problemi di essere indirizzati verso contenuti che possano rivelarsi utili per prevenire i suicidi.
Prevenire i suicidi partendo dalle ricerche eseguite su Google
Come ha spiegato Sandersan, un’indagine condotta su cinque Paesi diversi ha dimostrato che «il volume di ricerche di termini collegati al suicidio trova una corrispondenza e una correlazione nei tassi nazionali di suicidio, il che significa che [molto spesso] le persone fanno questo tipo di ricerca online prima di commettere un suicidio».
Per questa ragione, insieme ai suoi colleghi del Black Dog Institute, Sandersan Onie ha sviluppato un progetto che mira a usare Google Ads per prevenire i suicidi. Ho analizzato il progetto e l’ho raccontato altrove prima di conoscere Onie Sandersan e tutte le motivazioni che l’hanno portato a svilupparlo e riesco, ora, ad apprezzarne ancora di più il funzionamento e lo scopo.
L’idea è quella di sfruttare Google Ads per reindirizzare chiunque compia ricerche relative al suicidio verso dei siti di supporto: «così, anziché imbattersi in forum che potrebbero dare informazioni su come commettere un suicidio», la prima cosa che vedranno sarà un annuncio che dirà loro che c’è qualcuno pronto a offrire aiuto.
Verranno così creati dei contenuti e delle pagine web adatte per differenti gruppi di persone: grazie all’algoritmo di Google – che permette di classificare gli utenti in base all’età e al sesso – sarà possibile reindirizzare i differenti utenti verso il tipo di pagina più adatta alle loro esigenze. Con un esempio di Sandersan: «supponiamo che tu sia una giovane donna che sta pensando al suicidio: l’algoritmo di Google ti indirizzerà verso un sito con contenuti creati da altre donne giovani che hanno vissuto un’esperienza simile».
Per renderlo possibile, il team di ricercatori lavora insieme a delle persone che una volta hanno tentato il suicidio e che possono aiutare a comprendere quale potrebbe essere il tipo di messaggi e di contenuti più adatti a differenti gruppi di persone.
Anche se il progetto nasce per rispondere a un bisogno urgente che esiste in Indonesia, come ha fatto notare Sandersan Onie, purtroppo i tabù e i pregiudizi riguardo la salute mentale esistono anche in tanti altri Paesi, compreso quello dove vive attualmente (l’Australia) e nei Paesi europei, per esempio. Per questa ragione, Sandersan pensa con entusiasmo alla possibilità di adattare l’iniziativa per prevenire i suicidi ad altri Paesi e il gruppo di ricercatori, in effetti, sta già lavorando per lanciarlo anche altrove.
A chiusura della nostra chiacchierata, citando la propria esperienza e ricordando le passate tendenze suicide, il ricercatore ha ricordato che anche nei casi più difficili «c’è speranza». Per questo, rivolgendosi con calore e vicinanza, a tutti quelli che affrontano problemi simili, ha comunicato un messaggio di incoraggiamento:
«Puoi usare la tua esperienza per aiutare moltissime persone attorno a te […] non aver paura di cercare aiuto, abbiamo bisogno di farlo e così potremo essere di supporto anche ad altri».